Cornice in prosa
D’autunno, luce d’argento e piombo filtra ritmata dalle finestre disadorne nella penombra di una vecchia baita. Sull’impiantito in legno, foglie secche si rincorrono.
È il ricordo di un sogno per me significativo. L’inizio di un viaggio. La dichiarazione per immagini di un timore: quello di un luogo intimo in difficoltà nel connettersi con il mondo senza né rinserrarsi né declinare nell’indistinto.
Riporto questa evocazione giusto per introdurre con
un’analogia l’argomento che qui vorrei tratteggiare, ovvero una breve storia e
il suo senso di un elemento letteralmente ai margini della pittura d’occidente,
“il più mobile dei mobili” come è stato definito: la cornice. Così come il
basamento per la scultura, la cornice ha una sua nascita e un suo percorso
nella storia dell’arte, che giunge fino allo sviluppo più recente in cui si
assiste perlopiù ad una rimozione di questo elemento, alla sua assenza.
Prime tracce della necessità di incorniciare, sono date
dai pittori del mondo latino, pitture murali tutt’uno con gli ambienti interni,
scene di vita quotidiana, mitologiche o composizioni naturalistiche racchiuse
dentro elementi architettonici anch’essi resi pittoricamente a trompe l’oeil. All’impaginazione visiva
dei latini fa eco più tardi la pagina manoscritta del Medioevo, con i suoi capilettera,
ancor più con le cornici miniate e gli spessi bordi bianchi attorno al testo.
Progressivamente i pittori si trovano a rispondere a esigenze nuove e se permangono i grandi cicli a parete e le immagini fuse con l’architettura, cresce la richiesta di formati più mobili, quali le tavole dipinte, normalmente di formato rettangolare, organizzate in polittici con cornici lignee a imitazione delle arcate in muratura (facciate e loggiati), oppure in tavole singole. Nasce in questo periodo la similitudine del quadro con la finestra e di conseguenza l’evoluzione formale e ideale della cornice. Da struttura architettonica che direziona e racchiude lo spazio altro della pittura diventa così struttura leggera realizzata in legno.
Da qui in poi è un susseguirsi costante di forme
applicate alla cornice, forme che sono frutto e riflesso di modi di rapportarsi
dell’uomo occidentale con sé e il mondo, forme che ne ricalcano gli slanci e le
inquietudini. Se nel barocco le cornici si dilatano nello spazio e sono
intagliate riccamente con motivi vegetali a testimonianza della necessità di
radicarsi e di espandersi fertilmente per rispondere a un vuoto terribile che
si era appena svelato ne segue nel rococò un diradarsi dei segni, un’asciugatura
e la presenza diffusa di vuoti. Saltando di qualche secolo e omettendo alcuni
tentativi di ritorno a un ordine, arriviamo al Novecento con le sue
accelerazioni tecniche e con le sue deflagrazioni assorbite dalle iconografie
avanguardistiche. Le cornici allora vengono decostruite, citate, sagomate
irregolarmente per correre lungo i bordi dei fuori formato, dipinte anch’esse
come le superfici pittoriche che contengono, fino a scomparire, ad essere del
tutto rimosse nella direzione di una fusione tra arte e vita.
Oggi che scrivo mi riconosco la necessità di dare il
giusto peso, la giusta cura e una dimensione propria alla cornice, consapevole
ora di quanto sia affatto secondaria, anzi essenziale tra i dettagli. Valida
metafora per chi sa leggere tra le righe.
Ps. Per chiudere il cerchio o la cornice
Calda domenica pomeriggio, al tavolino di un bar con un’amica, mi racconta il ricordo di un suo vecchio sogno, per lei importante: inquieta abitava una casa assolata senza infissi alle finestre.
Articolo a cura di Roberto Urso
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